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Un processo creativo, fluido, ma con regole precise; un Metodo sul quale è necessario formarsi, attraverso un aggiornamento puntuale e continuo.
La seconda tappa del nostro viaggio nel mondo del Design Thinking ci porta dalla teoria alla pratica. Abbiamo avuto modo di conoscere questo approccio grazie all’intervista con il professor Salvio Vicari (LEGGI QUI), che ci ha raccontato tutto quello che sta dietro: ora è il momento di passare sul campo.
SECONDA TAPPA: Dalla Teoria alla Pratica
E lo facciamo insieme a Cristina Contini (Psicologa e Senior Researcher di VVA MR). E lo facciamo con lei per un motivo ben preciso, anzi due: perché Cristina questa materia l’ha studiata, e perché la sta mettendo in pratica concretamente.
“Ho deciso di studiare questo mindset, spinta dalla curiosità: una curiosità che si è poi trasformata in necessità. Di Design Thinking si sente parlare molto e se ne sente parlare da un po’: ma c’era un problema. Il più delle volte, l’informazione e il sapere relativi a questo tema si limitavano a una ricerca su Google e a una velocissima infarinatura: inutile, anzi dannosa. Perché molti credono di conoscere il Design Thinking e di poterlo proporre senza in realtà sapere come davvero funzioni: la confusione è tanta”.
Ed ecco, allora, la voglia di conoscerlo e studiarlo.
“Credo molto nella sincronicità delle cose, e credo che quando si sente il bisogno di avere qualcosa arriva la possibilità di ottenerlo. Ed è esattamente così che è andata: sentivo il bisogno di saperne di più sul Design Thinking, e ho incrociato sulla mia strada la possibilità di studiarlo. Questa teoria è nata e si è sviluppata negli USA: per impararla, bisogna immergersi in un mondo a stelle e strisce. Ed è quello che ho fatto, con il corso sviluppato da IDEO (il Design Thinking l’hanno inventato loro) che mi ha letteralmente assorbita e conquistata: un corso fatto di tanta teoria e tantissima pratica, che mi ha inserita in un gruppo di lavoro affiatato e mi ha permesso di toccare con mano quello che stavo imparando. Facendomi appassionare sempre di più a questo approccio”.
Affascinata, perché.
“Due le cose che colpiscono subito e colpiscono di più. Innanzitutto, una delle caratteristiche principali è l’iterazione, che gli americani chiamano Iterate: significa che ogni processo è sempre in viaggio, che c’è sempre spazio per nuove idee e che ogni idea nuova serve per fare un passo avanti. Altro aspetto affascinante è la possibilità di imparare a generare la creatività con tecniche e strumenti nuovi, da me mai utilizzati e mai nemmeno immaginati. Che funzionano”.
Funzionano, come?
“Quattro sono le fasi di questo approccio. La prima è chiamata WHAT IS: è il momento dell’ispirazione, il momento in cui si ragiona sul momento presente, quello che si sta vivendo e dove si sta andando. A questa fase segue quella chiamata WHAT IF, e qui vale tutto: si buttano sul campo le idee senza paura e senza remore, come dicono gli americani From wild to simple. Una volta che tutte le idee sono sul tavolo, ecco che si passa al WHAT WOWS: quale, tra tutte le idee emerse, ci piace davvero tanto ed allo stesso tempo ci sembra percorribile? E alla fine, eccoci alla fase chiamata prototyping, quella in cui si mette in concreto tutto quello che si era immaginato e si costruisce con le mani un vero e proprio modello, con carta, forbici, colla e tutti gli oggetti che si hanno a disposizione e si prova quindi a ‘materializzare’ un prodotto, un servizio, un ambiente, un modello organizzativo.
Successivamente, si arriva alla fase del WHAT WORKS, che rappresenta un’altra stimolante sfida: vuol dire mettere alla prova il prototipo con un’attività di user testing, così da ricevere feedback e commenti in grado di migliorare ed ottimizzare la realizzazione, come si scriveva prima in una logica di ‘iterazione’ continua”.
Un po’ di pratica?
“Beh, anche qualche esempio di come questa teoria punti a ragionare sul concetto di “Mercato Possibile”, abbandonando le logiche del “Mercato certo”: perché oggi, di certezze sul mercato ce ne sono poche. Airbnb è nata così, grazie a due ragazzi di San Francisco che in occasione di un convegno medico che aveva riempito gli alberghi della città decisero di affittare delle brandine in casa loro e creando così un perfetto “mercato possibile”. O come gli SMS, nati con un’altra funzione e diventati il principale mezzo di comunicazione negli anni 2000. La pratica racconta poi del lavoro fatto da VVA Group con un Cliente del settore Servizi a cui abbiamo proposto questo approccio per sviluppare un nuovo modello di Business, che si è tradotto in una full immersion di tre giorni in un albergo di Milano durante i quali ci si è messi in gioco e sono successe cose interessanti”.
Ovvero?
“Non entrerei nello specifico, ma di sicuro si è toccato con mano come il Design Thinking possa aiutare le aziende a innovare: ad arrivare ad un’idea che sia la più efficace. In termini più pratici, durante queste giornate ci si diverte tantissimo e si segue la teoria del “pensiero divergente” che porta tutti a mettersi in discussione e che vede un Amministratore Delegato che si slaccia la cravatta e si rimbocca le maniche della camicia per ritagliare con le forbici un cartellone. All’interno di questo processo, la teoria del Design Thinking insegna una serie di tecniche molto precise e specifiche per gestire ogni fase con un imperativo unico e costante: uscire dalla comfort zone, considerare l’errore come un’opportunità, non avere mai paura di sbagliare”.
E qual è il suo ruolo, il ruolo di chi ha studiato il Design Thinking, nel corso di queste giornate?
“In Italia traduciamo questo ruolo con il termine “moderatore”: che è corretto, ma fino a un certo punto. Perché in realtà, meno il moderatore parla e più è bravo ed efficace: quindi io parlerei di “facilitatore”. Una figura che stimoli, che stuzzichi, che innesti: e che poi sia bravo a lasciar fare. Perché altrimenti c’è il rischio che questo ruolo sia talvolta occupato da una figura carismatica, magari bravissima a parlare e capace di farsi ascoltare, che proprio per questo toglie spazio alla creatività e alla libertà degli altri. Quello del facilitatore è quindi un ruolo fondamentale”.
E facilitatori si nasce o si diventa?
“Facilitatori si studia. Questo è un approccio “human centered”, che punta tutto sulle persone e su quello che spesso viene chiamato il ‘capitale umano’: ed è per questo motivo che è importante formarsi ed aggiornarsi costantemente”.
Ringrazio sentitamente il mio Gruppo di Studio per la certificazione IDEO e gli importanti apprendimenti resi possibili dagli ottimi docenti In Sprint”.
a cura di Francesco Caielli
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